Lavoro e fede | Più che una prestazione

Data: 7 settembre 2025 Pre­di­ca­to­re:
Serie: | Tes­to bibli­co: Gene­si 3:16–19; Apo­ca­lis­se 2:17
Sug­ge­ri­men­to: Ques­to ser­mo­ne è sta­to tra­dot­to auto­ma­ti­ca­men­te. Si pre­ga di nota­re che non pos­sia­mo accet­ta­re alcu­na responsa­bi­li­tà per l’ac­cu­ra­tez­za del contenuto.

Pas­sia­mo mol­to tem­po al lavoro. Quin­di, se ho un rap­por­to sba­gli­a­to con il lavoro, ques­to ha con­se­guen­ze devas­tan­ti. Seb­be­ne il lavoro abbia la sua ori­gi­ne in Dio stes­so, è anche sog­get­to agli effet­ti del­la sepa­ra­zio­ne da Dio. Il risult­a­to è un lavoro duro e pie­no di sfi­de. Un gran­de per­i­co­lo del lavoro è quello di far dipen­de­re la nos­t­ra iden­ti­tà dal lavoro. Il lavoro come cul­to diven­ta rapi­da­men­te il cul­to del lavoro. Ma come segu­ace di Gesù, non è il lavoro la fon­te del­la mia iden­ti­tà, bensì Gesù Cris­to. Se ho un nome pres­so Dio, non devo cre­ar­me­ne uno attra­ver­so il mio lavoro. La mia iden­ti­tà risie­de nel fat­to che fac­cio par­te del sacer­do­zio rea­le di Dio.


Dome­ni­ca scor­sa abbia­mo ana­liz­za­to la digni­tà del lavoro e ci sia­mo resi con­to che pas­sia­mo ¼ del­la set­ti­ma­na a far­lo. Vor­rei quin­di azz­ar­da­re l’i­po­te­si che un rap­por­to sba­gli­a­to con il nos­tro lavoro abbia effet­ti devas­tan­ti. Così come un rap­por­to posi­tivo può ave­re una gran­de attrattiva.

La maledizione del lavoro 

Dio stes­so è l’au­to­re del­l’­ope­ra. Ma le con­di­zio­ni sono cam­bia­te. Nella let­tu­ra del tes­to abbia­mo sen­ti­to le con­se­guen­ze del­la sepa­ra­zio­ne da Dio. Essa ha un for­te impatto sul­l’area del lavoro. Il risult­a­to è un lavoro duro e dolo­ro­so. In alcu­ne lin­gue esis­te la stes­sa paro­la per ent­ram­bi, ad esem­pio in ing­le­se «labour». Il lavoro non è più solo una for­ma di cul­to, ma è anche neces­sa­rio per sopravvivere.

Il lavoro non è una male­di­zio­ne in sé, ma è sot­to la male­di­zio­ne del pec­ca­to. Per pec­ca­to si inten­do­no gli effet­ti del­la sepa­ra­zio­ne, che porta­no a man­ca­re l’o­bi­et­tivo del lavoro, che sareb­be: il lavoro è l’a­do­ra­zio­ne di Dio. Le espe­ri­en­ze di frus­tra­zio­ne sono nor­ma­li! Par­te del­l’ef­fet­to è sta­to «Su di essa cre­sceran­no spi­ne e car­di, ma tu devi nut­rir­ti del­le pian­te del cam­po». (Gene­si 3:18 NLB). Le spi­ne e i car­di sim­bo­leg­gi­a­no la fati­ca, la man­can­za di uno sco­po, la man­can­za di apprezzamen­to, gli effet­ti nega­ti­vi sul­la salu­te, ecc. Posso­no anche esse­re descrit­ti come la male­di­zio­ne del lavoro. Anche se sei nel pos­to gius­to, spi­ne e car­di fan­no pur­trop­po par­te del lavoro. Importan­te: il lavoro in sé non è una male­di­zio­ne, anzi è una bene­di­zio­ne. Ma la male­di­zio­ne è la preoc­cu­p­a­zio­ne, la fati­ca, la frus­tra­zio­ne, il sudo­re e la stan­chez­za asso­cia­ti al lavoro.

Poi c’è la per­di­ta di signi­fi­ca­to del lavoro. Spes­so non lavoro più per­ché voglio rend­er­mi uti­le agli altri, ma solo per me stes­so. Il Pre­di­ca­to­re ha già scritto di ques­to tipo di lavoro: «La vita è sta­ta com­ple­ta­men­te rovin­a­ta per me, per­ché è tut­to così inu­tile, come cer­ca­re di pren­de­re il ven­to». (Eccle­si­as­te 2:17 NLB). I frut­ti del lavoro sva­nis­co­no e a un cer­to pun­to anche le mie pres­ta­zio­ni ven­go­no dimen­ti­ca­te. Se il lavoro è ormai inu­tile per me, cer­co di tro­va­re un signi­fi­ca­to. Sia che si trat­ti del rico­no­sci­men­to da par­te del­le per­so­ne, di un buon sala­rio, di uno sta­tus, del­la frase «semp­re meglio di…» o al di fuo­ri del lavoro, nel tem­po libe­ro, nei con­su­mi, nei viag­gi, negli averi, nel­lo sport, ecc. Ques­to per­ché il nos­tro lavoro ha un impatto sul­la nos­t­ra auto­sti­ma. Se il mio lavoro non è ris­pett­a­to, mi sen­to in col­pa e devo com­pen­sare. Se il mio lavoro è mol­to apprez­za­to, il mio naso si alza e ten­do a met­ter­mi in mos­tra. È dif­fi­ci­le capi­re la dif­fe­ren­za dal­l’es­ter­no, ma le moti­va­zio­ni sono diver­se. Ma: la delu­sio­ne che noi esse­ri uma­ni spe­ri­men­ti­amo sul­la ter­ra a cau­sa del lavoro ha il poten­zia­le per distac­c­ar­ci dal lavoro e cer­ca­re arden­te­men­te Dio.

Autostima attraverso il lavoro

Ciò che acca­de quan­do ques­to non avvie­ne è esem­pli­fi­ca­to dal­la sto­ria del­la Tor­re di Babe­le nel­l’un­di­ce­si­mo capi­to­lo. Il per­cor­so del lavoro fino a ques­to pun­to è sta­to carat­te­riz­za­to dal lavoro come col­ti­va­zio­ne del­la crea­zio­ne (Gene­si 1–2) e dal fat­to che la tec­no­lo­gia è sta­ta uti­liz­za­ta come stru­men­to di pote­re (Gene­si 4). Fino ad oggi, la decis­io­ne di cos­trui­re una tor­re. «E si dis­se­ro l’un l’al­t­ro: «Anda­te, posia­mo i mat­to­ni e bru­cia­mo­li». – E pre­se­ro mat­to­ni per la pie­tra e resi­na di ter­ra per la mal­ta, dicen­do: Veni­te, cos­truiam­o­ci una cit­tà e una tor­re la cui cima rag­gi­un­ga il cie­lo, per far­ci un nome; altri­men­ti sare­mo disper­si sul­la fac­cia di tut­ta la ter­ra». (Gene­si 11:3–4 LUT). Vole­va­no far­si un nome attra­ver­so il loro lavoro. In alt­re paro­le, vole­va­no cos­truir­si un’i­den­ti­tà. «Se devi far­ti un nome, non ce l’hai, il che signi­fi­ca che non sai chi sei». (Timo­thy Kel­ler). O noi esse­ri uma­ni ci fac­cia­mo un nome o dob­bia­mo cre­ar­ce­lo. Dato che in media pas­sia­mo ¼ del nos­tro tem­po a lavora­re, ha sen­so voler­si gua­d­ag­na­re un nome. Le per­so­ne che cos­trui­va­no la tor­re attri­bui­va­no un valo­re reli­gio­so al loro lavoro. Cer­ca­va­no la feli­ci­tà nei frut­ti del loro lavoro.

Il lavoro come cul­to è diven­ta­to cul­to del lavoro. Ques­to vale anche per noi! Ecco per­ché è importan­te ave­re un lavoro di alto pro­fi­lo, che pro­met­ta mol­to den­a­ro, pres­ti­gio e/o influ­en­za. Se il lavoro ha la prio­ri­tà sba­glia­ta, le cose importan­ti, soprat­tut­to le rela­zio­ni, pass­a­no in secon­do pia­no: le rela­zio­ni con i col­leghi di lavoro, il coniuge, i fig­li, gli amici e, soprat­tut­to, con Dio. «Un uomo che vive da solo e non ha né fig­li né fratel­li, né amici né cono­s­cen­ti. Lavo­ra il più pos­si­bi­le e vuo­le semp­re di più. Non dov­reb­be chie­der­si: «Per chi sto lavor­an­do? Per­ché non mi con­ce­do alcun pia­ce­re? Anche ques­to è inu­tile e una per­di­ta di tem­po». (Eccle­si­as­te 4:8 NLB). Tut­ti ris­chia­no di tras­for­ma­re il lavoro in un ido­lo. Defi­ni­zio­ne di ido­lo: aspet­tar­si sicu­rez­za, pro­te­zio­ne, signi­fi­ca­to, sod­dis­fa­zio­ne e bel­lez­za da qual­co­sa che non è Dio. Ma solo Dio può fare ques­to. Per­ciò fac­cio di qual­co­sa di buo­no il mio mas­si­mo. «Chi semi­na sul ter­re­no del­la sua natu­ra ego­i­sti­ca rac­co­glierà dis­tru­zi­o­ne come frut­to del suo ego­is­mo. Al con­tra­rio, chi semi­na nel ter­re­no del­lo Spi­ri­to di Dio rac­co­glierà vita eter­na come frut­to del­lo Spi­ri­to». (Gala­ti 6:8 Nuo­vo Tes­ta­men­to). Ques­te cose non sono solo visi­bi­li, ma anche nel nos­tro cuo­re (Eze­chi­e­le 14:17). Quin­di, se il lavoro è il mio ido­lo e lo fac­cio anche con suc­ces­so, ques­to ha un impatto. Ho la sen­sa­zio­ne di ave­re un’i­dea di tut­to e di tut­ti. Ma è esat­ta­men­te il con­tra­rio: se le per­so­ne non han­no suc­ces­so nel lavoro, si nega­no una com­pe­tenza com­ple­ta. Se il lavoro è il mio ido­lo, il suc­ces­so pro­fes­sio­na­le mi sedu­ce e mi ren­de improv­vi­sa­men­te crea­tivo nel­lo sfrut­ta­re i limi­ti altrui e mol­to alt­ro. All­o­ra fac­cio mol­te cose che nel miglio­re dei casi sono lega­li, ma comun­que al limi­te. La prossi­ma vol­ta ci occup­er­e­mo del van­ge­lo del lavoro: come pos­sia­mo fare la dif­fe­ren­za. Ma se il lavoro defi­nis­ce il mio valo­re, all­o­ra vivrò una cri­si di signi­fi­ca­to al più tar­di quan­do andrò in pen­sio­ne o quan­do i fig­li andran­no via. Dopo tut­to, come pos­so far­mi un nome se non attra­ver­so il lavoro?

La vera identità

L’i­den­ti­tà e il nome non deri­va­no da qual­co­sa che pos­so «gua­d­ag­na­re». L’i­den­ti­tà non è defi­ni­ta dal mio lavoro di insegnan­te, pas­to­re, archi­tet­to, bad­an­te, ecc. Ma sen­za il van­ge­lo di Gesù Cris­to, sia­mo cond­an­na­ti a lavora­re non per la gioia di ser­vi­re gli altri o per il bene del lavoro stes­so, ma per far­ci un nome, un’i­den­ti­tà. Ma in quan­to segu­ace di Gesù, non ho biso­g­no di far­mi un nome per­ché «[…] e gli darò una pie­tra bian­ca, sul­la qua­le sarà scritto un nome nuo­vo che nes­su­no cono­scerà se non colui che lo rice­verà». (Apo­ca­lis­se 2:17 NLB). Il nuo­vo nome è una par­te essen­zia­le del­l’es­se­re ris­cat­ta­ti dag­li stan­dard di ques­to mon­do. È un seg­no del rin­no­va­men­to del­la per­so­na e del­l’es­se­re attra­ver­so la rela­zio­ne con Dio. Lo vedia­mo già con Abram in Abra­mo, Gia­cob­be in Israe­le o Simo­ne in Pie­tro. La reden­zio­ne dag­li stan­dard di ques­to mon­do, cioè l’an­null­a­men­to del­la sepa­ra­zio­ne, è sta­ta com­pi­u­ta da Gesù Cris­to. Non pos­so risol­vere ques­to pro­ble­ma da solo. Ma Dio può far­lo e lo ha fat­to! «[…] ma tu mi hai fat­to fati­ca­re con i tuoi pec­ca­ti e mi hai fat­to affati­ca­re con le tue ini­qui­tà. Io can­cel­lo le tue tras­gres­sio­ni per amor mio e non ricordo i tuoi pec­ca­ti». (Isa­ia 43:24–25 LUT). Il pec­ca­to è quan­do creo un ido­lo per me stes­so – come già det­to: fare di qual­co­sa di buo­no il mas­si­mo. Ma spes­so sia­mo cie­chi di fron­te ai nos­tri ido­li. Chie­di al tuo coniuge o ai tuoi amici, saran­no sicu­ra­men­te feli­ci di aiut­ar­ti. Se ques­to feed­back o qual­co­sa sul lavoro ti por­ta a una cri­si, non lasciar­ti sfug­gi­re l’oc­ca­sio­ne. Le cri­si non sono un male, anzi ci aiuta­no a matura­re spi­ri­tu­al­men­te. Per­ché diven­ta­re più simi­li a Gesù Cris­to è un pro­ces­so che dura tut­ta la vita. «Sono cer­to che Dio, che ha ini­zia­to la sua ope­ra buo­na in voi, la con­tin­uerà e la com­ple­terà fino al gior­no in cui Cris­to Gesù ritor­nerà». (Filip­pe­si 1:6 NLB).

Hai un nome con Dio o devi cre­ar­te­ne uno da solo? Vor­rei invit­ar­ti a pen­tir­ti. A pen­tir­ti di una fal­sa iden­ti­tà che non reg­ge. Ad allon­tan­ar­ti dal­la defi­ni­zio­ne di «esse­re miglio­re» sul lavoro. Non una defi­ni­zio­ne di buon lavoro, buo­na retri­bu­zi­o­ne, ma di lavoro miglio­re di … o di retri­bu­zi­o­ne miglio­re di .…. Pen­tir­si del­le cose in cui si è fat­to di qual­co­sa di buo­no il mas­si­mo. Nella Bibbia, l’un­zio­ne con l’o­lio è un seg­no per i re e i sacer­do­ti. L’un­zio­ne con l’o­lio è quin­di un seg­no del sacer­do­zio rea­le (1 Pie­tro 2:9) e quin­di del­l’i­den­ti­tà di un segu­ace di Gesù. L’un­zio­ne è il seg­no che Dio ti dà un nome, un’i­den­ti­tà – e non il tuo lavoro. Ques­ta mat­ti­na c’è un’of­fer­ta di unzio­ne. Vor­rei invit­ar­ti a far­ti unge­re. Così facen­do, espri­mi la tua decis­io­ne con­s­ape­vo­le di non far­ti un nome. Si trat­ta di un allon­ta­na­men­to dal­l’ido­lo del lavoro o da un alt­ro ido­lo e di un attivo rivol­ger­si a Dio. E» cer­ta­men­te neces­sa­rio un super­a­men­to. Un invi­to acco­ra­to al super­a­men­to, per­ché alcu­ne cose ven­go­no raf­forza­te dal­l’a­zio­ne. For­se non cor­rispon­de alla tua for­ma di pie­tà. All­o­ra è un invi­to acco­ra­to a com­pie­re un’a­zio­ne sim­bo­li­ca su tut­ta la tua per­so­na. È un’af­fer­ma­zio­ne del­la tua iden­ti­tà come par­te del sacer­do­zio rea­le. È un’af­fer­ma­zio­ne del­la tua iden­ti­tà di figlia o figlio pre­di­let­to di Dio.

Possibili domande per il piccolo gruppo

Leg­gi il tes­to bibli­co: Gene­si 3:16–19 & Apo­ca­lis­se 2:17

  1. Dove rico­no­sci il per­i­co­lo di far dipen­de­re la tua iden­ti­tà e la tua auto­sti­ma dal lavoro?
  2. Qua­li «spi­ne e car­di» (frus­tra­zio­ne, fati­ca, man­can­za di rico­no­sci­men­to, sov­r­ac­ca­ri­co…) spe­ri­men­ti nel tuo lavoro? Come li affronti?
  3. In qua­li momen­ti o model­li rico­no­sci che il lavoro può diven­ta­re un «ido­lo»? Qua­li sono i tuoi segna­li d’all­ar­me personali?
  4. Cosa signi­fi­ca per te che Dio ti dà un «nuo­vo nome» (Apo­ca­lis­se 2:17)? Come cam­bia la tua visio­ne del lavoro e del­le prestazioni?
  5. C’è sta­ta una cri­si lavo­ra­ti­va nella tua vita che ti ha por­tato ad avvicin­ar­ti a Dio? Cosa hai impa­ra­to da essa?
  6. Qua­li pas­si con­cre­ti puoi fare nella tua vita quo­ti­dia­na per vive­re il lavoro più come «cul­to di Dio» e meno come fon­te del­la tua identità?